sabato 22 ottobre 2011

Il coraggio di essere gay

"When i was in the military they gave me a medal for killing two men and a discharge for loving one."



Leonard Matlovich, questo il nome dell'uomo che decise di andare contro quello che rappresentava per andare incontro a quello che era. La copertina del settimanale Time datata 8 settembre 1975 è lapidaria: la foto di Matlovich in uniforme con il titolo "I am a homosexual".
Nato il 6 luglio del 1943, figlio di un militare, Leonard Matlovich vive tutta la sua giovinezza in basi militari e alla giovane età di 19 anni si arruola.
Sergente dell'aviazione in Vietnam, pluridecorato per l'ottimo lavoro svolto in guerra (uccide due vietcong) e per le ferite riportate, torna in patria nel 1971.
Il 6 marzo 1975 consegna a mano una lettera firmata al suo comandante della base aerea di Langley nella quale, con tutta sincerità, racconta la verità sulla sua omosessualità e annuncia che non avrebbe rinunciato al suo lavoro.
L'uscita del Time segna un punto di svolta: da quel momento in poi Matlovich si è battuto perché i diritti dei gay fossero rispettati. Primo militare a fare outing e in tempi in cui farlo non era semplicissimo, Leonard Matlovich diventa un'icona gay, un punto di riferimento per tutti coloro che volevano uscire allo scoperto ma erano frenati dai giudizi severi e dalla discriminazione della gente.
Anche Matlovich dopo l'uscita di quella copertina ha dovuto subire delle discriminazioni arrivate, in primis, da coloro che pochi anni prima lo avevano omaggiato con onorificenze e medaglie. Il 22 ottobre 1975 viene processato e congedato “onorevolmente”, fa causa per il reintegro nell'Air Force e la vince ma alla fine si accorda privatamente con l'esercito e accetta di chiudere il caso in cambio di 160.000 dollari ed al congedo "con onore".
Alla fine degli anni '70 nel mondo gay compare lo spettro dell'AIDS, malattia che colpisce anche Matlovich. Fino a poche settimane prima della morte, avvenuta il 22 giugno 1988, continua a manifestare davanti alla Casa Bianca contro le insufficienti misure sanitarie prese dall'allora presidente Ronald Reagan per combattere l'HIV.
Coerente con le scelte fatte fino a quel momento Leonard Matlovich decide di essere sepolto nel cimitero del Congresso di Washington e non in quello di Arlington, tradizionalmente destinato ai militari. Questa la sua lapide.



domenica 16 ottobre 2011

Non è un paese per indignati



La capitale vista dopo gli scontri di ieri non ha davvero nulla di eterno: le vetrine distrutte, le scritte sui muri, i cassonetti e le auto bruciate sono quello che rimane di una giornata che si proponeva di essere ricordata per le numerosissime adesioni, per le proposte fatte da chi il paese lo vive quotidianamente, per l'indignazione pacifica.
E invece neanche un'ora dopo la partenza del corteo le vere intenzioni di una esigua ma ben organizzata frangia di manifestanti si sono palesate e nel peggiore dei modi.

Gli scontri hanno offuscato le reali intenzioni della manifestazione e dei manifastanti e ad un certo punto qualcosa si è spezzato ed è successo l'irreparabile. Già ieri sera tutti i TG, tutti i siti internet erano intasati da immagini, da commenti e da collegamenti che raccontavano il peggio di quello che stava accadendo a Roma e il peggio purtroppo è quello che rimarrà nei ricordi di chi era lì per esprimere il proprio malcontento, nei ricordi dei cittadini romani che hanno subito una violenza ingiustificata, e nei ricordi di tutti noi, che indignandoci da lontano eravamo vicini a chi si è ritrovato nel centro del ciclone.
Solitamente contraria alle azioni delle forze dell'ordine, perché credo che spesso incanalino la loro frustazione per un lavoro pericoloso e spesso mal pagato verso chi in fin dei conti non ha colpe, oggi mi sento vicina anche a loro. A differenza del G8 di Genova, dove le forze dell'ordine hanno sfogato la loro umiliazione nei confronti di ragazzi indifesi (mi riferisco alle violenze della scuola Diaz), ieri a Roma erano li per difendere il corteo, per garantire la sicurezza a coloro i quali avevano visto in quella manifestazione la possibità di esprimere le proprie idee, le proprie volontà, la propria indignazione. La forze dell'ordine ieri hanno subito la frustazione di quei ragazzi che riconoscono la violenza come unico modo per far sentire la propria voce, per ribellarsi al sistema, per cambiare le cose.

Inoltre credo che molti di quei poliziotti, di quei carabinieri si sentivano vicini ai manifestanti, vicini alle loro richieste. Questo perché quando arrivano i periodi nei quali lo scontento così come la voglia di cambiamento è generale, periodi di crisi che attanaglia i più e lascia fuori solo i privilegiati, che diventano sempre meno ma hanno sempre più poteri, ebbene in questi periodi le ostilità e le differenze tra comparti diversi della società si attenuano perché siamo tutti coinvolti.


La disapprovazione, la rabbia, la delusione per l'inaudita follia che ha devastato Roma sono sentimenti comuni e che hanno messo d'accordo per una volta tutti: manifestanti, maggioranza ed opposizione. Molti sono stati coloro che hanno appoggiato le più di 200 mila persone scese in piazza pacificamente ma l'appoggio più inaspettato è arrivato senza dubbio da Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e prossimo presidente della Bce che ha commentato così la manifestazione di Roma contro le banche degli Indignati:«I giovani? Hanno ragione. Siamo arrabbiati noi contro la crisi, figuriamoci loro che hanno venti, trenta anni. Hanno aspettato, aspettano tanto. Per noi non è stato così».
Ecco questa dichiarazione credo sia significativa, significativa perché per la prima volta qualcuno che ricopre un ruolo importante, prestigioso, non ha definito tutti i manifestanti dei facinorosi, degli scansafatiche senza voglia di studiare o lavorare e che per questo va a manifestare, per la prima volta qualcuno si è reso conto che la nostra indignazione non è solo per quello che viviamo oggi, ma per quello che sappiamo già non potremo vivere domani.